Replica all’intervista, rilasciata a Il Dubbio, dall’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte che non ha, però, affrontato la questione delle proposte del vicepresidente del Csm Ermini sui pubblici monisteri
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del 1 aprile 2021
La scorsa settimana sono stato intervistato da Valentina Stella su questo giornale (Il Dubbio, ndr). Le cose da me dette sono state da Lei utilizzate per intervistare Eugenio Albamonte, ex presidente del sindacato della magistratura, l’Anm, ed esponente di una delle correnti di sinistra. Il dottor Albamonte ha dichiarato alla intervistatrice di aver letto la mia intervista “con grande attenzione“. Da un canto ha parzialmente commentato, con sconcertanti affermazioni, le cose da me dette sull’assenza di valutazioni della professionalità dei nostri magistrati e dall’altro ha accuratamente evitato di commentare quanto da me detto in merito alle proposte del vicepresidente del Csm, onorevole Ermini, riguardanti il pubblico ministero.
Sul fatto che da oltre 50 anni i nostri magistrati non subiscano sostantive valutazioni di professionalità e di regola raggiungano tutti, in base all’anzianità, il vertice della carriera e dello stipendio, il dottor Albamonte ci spiega che ciò avviene perché da noi “la valutazione di professionalità (dei magistrati) non si basa su criteri di eccellenza, bensì sulla necessità di garantire uno standard professionale adeguato a tutti i cittadini… “.
Anche se si volesse ritenere che il criterio della “adeguatezza“nelle valutazioni possa essere considerato accettabile con riferimento a chi, come i magistrati, dovrebbe garantire i beni e la libertà dei cittadini, occorrerebbe subito precisare che neppure quel minimo criterio viene nella pratica adottato dal Csm.
Le analisi delle valutazioni dei magistrati da noi effettuata analizzando i verbali del Consiglio mostra che a partire dagli inizi degli anni 1970 la percentuale dei magistrati che vengono “bocciati” varia tra lo 0,9 e lo 0,5 % , e buona parte di questi bocciati viene comunque valutato positivamente dopo due o tre anni. Di regola tutti i magistrati italiani raggiungono, a prescindere dal merito professionale, il vertice della carriera dopo 28 anni dal momento dell’assunzione in servizio. Ha quindi ragione Albamonte nel dire che non vengono usati criteri di eccellenza.
Non può invece dire (né provare) che venga utilizzato almeno il criterio dell’adeguatezza a svolgere i propri compiti, visto che di fatto il criterio assolutamente prevalente è quello dell’anzianità. Non avviene in nessuno degli altri Paesi europei con un sistema di reclutamento burocratico simile al nostro (non in Germania non in Francia, non in Olanda, e così via), Paesi ove le valutazioni sono selettive e ove pochi magistrati raggiungono i gradini più alti della carriera (poiché le promozioni non possono mai superare il numero di vacanze che di volta in volta si creano ai livelli superiori della giurisdizione – una volta era così anche da noi).
La determinazione con cui il nostro Csm ha identificato merito e anzianità è stata tale da fargli interpretare le norme, anche costituzionali, sulle “promozioni” in modo tale da poter promuovere “per meriti giudiziari” fino al vertice della carriera anche magistrati che non hanno svolto le funzioni giudiziarie per decenni (stabilendo così che per essere valutati positivamente e promossi ai magistrati non è necessaria neppure l’esperienza giudiziaria, basta l’anzianità).
Mi piace ricordare che Giovanni Falcone era molto critico dell’assenza di valutazioni di professionalità e degli effetti che aveva prodotto. Tra l’altro, disse a riguardo che “la inefficienza dei controlli sulla professionalità, cui dovrebbero provvedere il Csm ed i consigli giudiziari, ha prodotto un livellamento dei magistrati verso il basso“.
Per aver espresso questo giudizio venne criticato e “processato” dal Comitato direttivo centrale dell’Associazione (Bollettino della Magistratura, n. 4, 1988, la mozione di censura è riportata a p. 22), e venne poi anche ripetutamente penalizzato dal Csm.
Il giudizio espresso da Falcone sugli effetti negativi derivanti dall’assenza di reali valutazioni della professionalità è un giudizio che, in via confidenziale, mi sono sentito ripetere ed in termini anche più critici, da vari magistrati nel corso delle
mie ricerche. Di regola ne parlano apertamente solo i magistrati in pensione o al termine della loro carriera quando non hanno più nulla da temere (ad esempio si veda la relazione del 2017 del Procuratore generale della Corte di Cassazione, Pasquale Ciccolo, il quale dice che l’assenza delle valutazioni di professionalità ha fatto sì che “il sistema disciplinare” sia divenuto la sola sede “sulla quale riversare a posteriori … tutti i momenti critici della giustizia“).
Vengo ora alle questioni da me dette nell’intervista ed a cui il dottor Albamonte non ha dato neppure una parziale risposta nonostante dica di aver letto la mia intervista “con grande attenzione“. Riguardano la proposta del vicepresidente del Csm, Ermini, di valutare i pubblici ministeri anche con riguardo “alla qualità ed alla tenuta dei loro provvedimenti“. Io avevo detto che in Italia non è possibile ricercare un equilibrio tra l’esigenza di non esporre il cittadino innocente alla gogna di iniziative giudiziarie ingiustificate (un fenomeno molto diffuso in Italia) e quella di non intimidire il Pm con ingiustificate valutazioni del suo operato. Non è possibile perché nel nostro sistema giudiziario il Pm ha almeno due caratteristiche che contraddicono criteri e valori che in altri Paesi vengono considerati essenziali per il corretto funzionamento di una democrazia, caratteristiche che posso ricordate solo nei loro aspetti più essenziali.
La prima è che a differenza degli altri Paesi a consolidata democrazia, nella fase delle indagini preliminari il nostro Pm dirige in via esclusiva ed autonoma le indagini di polizia su ciascuno di noi quando a suo esclusivo e insindacabile giudizio ritiene che sia stato commesso un reato. In questa fase cioè egli agisce come un poliziotto indipendente del tutto irresponsabile per le iniziative che assume: il principio costituzionale dell’obbligatorietà, fattualmente inattuabile ma formalmente vigente, trasforma cioè, ipso iure, tutte le iniziative del Pm, per discrezionali che siano, in “atti dovuti” per i quali non può essere chiamato a rispondere.
La seconda è che a differenza di quanto avviene negli altri Paesi a consolidata democrazia, le priorità nelle indagini e nell’esercizio dell’azione penale, cioè la gran parte delle decisioni relative alle politiche pubbliche nel settore penale, non vengono assunte nell’ambito del processo democratico come avviene per le politiche pubbliche di altri settori (sanità, previdenza, lavoro ecc.), ma vengono invece assunte autonomamente da componenti di un corpo burocratico, cioè i Prn, che non hanno alcuna legittimazione democratica.
Il dottor Albamonte non ha espresso commenti a riguardo. Non so se sia perché è d’accordo o perché trovi difficoltoso rispondermi o per altro. Sia come sia, anche qui mi piace ricordare come Falcone non solo nei nostri colloqui, ma anche nei suoi scritti e con le iniziative assunte al ministero della Giustizia mostrò di condividere le mie valutazioni sull’anomalo assetto del nostro Pm (tra l’altro definì “un feticcio” l’obbligatorietà dell’azione penale). Anche per questo venne osteggiato dal Csm con riguardo alla sua nomina a Direttore nazionale antimafia.
Due postille.
La prima. Per comprendere la determinazione con cui il Csm ha perseguito l’obiettivo di promuovere tutti i magistrati in base all’anzianità è necessario ricordare due momenti della “gestione addomesticata” di due norme costituzionali.
Il primo: tra i compiti assegnati dalla Costituzione al Csm vi è quello di provvedere alla “promozione” dei magistrati (articolo 105). Da oltre cinquanta anni il Csm non svolge più questo compito. Da allora lo stesso termine “promozioni“, pur previsto dalla Costituzione, non appare più in nessuna delle delibere del Csm.
Il secondo: l’art 98 della Costituzione prevede che “I pubblici impiegati… se sono membri del Parlamento, non possono conseguire promozioni se non per anzianità“.
Fino al 1970 il Csm aveva ritenuto che quella norma si dovesse applicare anche ai magistrati. Nel 1970 il Csm approvò una relazione in base alla quale si sosteneva che quella norma non si poteva applicare ai magistrati perché i magistrati non sarebbero “pubblici impiegati“, e subito i magistrati parlamentari vennero promossi anche retroattivamente.
Seconda postilla. È difficile scrivere articoli come questo e sperare di essere compresi dai lettori non adusi agli artifizi del formalismo giuridico.
Come si può pretendere che il normale cittadino possa capire che un norma Costituzionale come quella che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale non possa essere di fatto applicata e ciononostante abbia effetti negativi sulla stessa tutela dei suoi diritti nel processo penale? Come fa a comprendere che l’art. 98 della Costituzione preveda che i pubblici impiegati che sono Parlamentari non possono essere promossi solo per anzianità e che nonostante i magistrati vengano di fatto promossi per anzianità il Csm, per poter promuovere i magistrati parlamentari, abbia dovuto stabilire che il divieto di promozione per merito previsto per i pubblici impiegati non si applica ai magistrati?
Giuseppe Di Federico
Professore emerito di ordinamento giudiziario dell’università di Bologna