Intervista a Marco Zambuto. L’ex primo cittadino di Agrigento: «l’automatismo per le sentenze di abuso d’ufficio limita i diritti civili»
Tratto dadel 25 luglio 2021
«Dopo essere stato scagionato, non ho potuto neanche ricandidarmi: una norma della regione Sicilia lo proibisce»
«Sto andando alla presentazione di un libro sulla magistratura siciliana nell’opera di Sciascia. Il suo pensiero mi ha aiutato tantissimo, se non mi fossi ispirato a lui non ce l’avrei fatta … ». Marco Zambuto dice di essere stato una delle prime vittime della legge che rimuove gli amministratori locali dal loro posto dopo una condanna non definitiva. Il prowedimento che fu votato in Parlamento ad ampia maggioranza nel 2012, prevede che per chi è in carica basta una sentenza in primo grado per abuso d’ufficio per essere sospesi fino a un massimo di 18 mesi. Ora il governo, accogliendo un ordine del giorno del deputato di Azione, Enrico Costa, si è impegnato a valutare delle modifiche alla legge.
Zambuto era sindaco di Agrigento quando nel giugno del 2012 fu condannato in primo grado a due mesi eventi giorni.
Secondo l’accusa avrebbe acquistato per seimila euro due pagine pubblicitarie su un quotidiano per pubblicizzare l’attività di
una fondazione di cui era presidente, avrebbe fatto campagna elettorale a spese dell’ente. «Il giorno dopo quella condanna mi dimisi e chiesi l’anticipazione del giudizio d’appello che arrivò nel novembre del 2014. Fui assolto con formula piena. Mi fu riconosciuto un comportamento di serietà e di correttezza nei confronti delle istituzioni ma ormai avevo pagato un prezzo altissimo. Non potetti neanche rlcandidarmi perché una legge della regione Sicilia vietava di farlo a chi si dimetteva dopo aver superato metà del suo mandato». Ora Zambuto è assessore regionale agli Enti locali.
Ma perché quella scelta di fare un passo indietro?
«Sono un avvocato, ho una formazione giuridica, quando c’è da difendersi bisogna andare fino in fondo. Ho voluto tener fuori le istituzioni. Non sono pentito di quella decisione dolorosa, la rifarei. Il problema è che il tempo della politica e dei media è implacabile. Gli effetti di quella vicenda si erano già consumati».
Che cosa pensa di quella legge?
«È una pena accessoria ancor più pesante della pena che ti viene commutata. Nega uno dei principi fondamentali per cui si è innocente fino al terzo grado di giudizio. Ti limita dal punto di vista dei diritti politici. Modifica il corso della storia di una comunità intera. Mette seriamente a
rischio la democrazia».
Che cosa ha provato dopo la sentenza d’appello?
«Dimettendomi avevo fatto una scelta forte. Mi sono messo in discussione senza che nessuno mi abbia regalato nulla. Ho combattuto, ma qui non è una questione di un caso singolo».
Cosa vuol dire?
«La legge è un disincentivo per chi vuole fare politica. Entri in un tritacarne che coinvolge anche la tua famiglia. Bisogna avere le spalle larghe per superare quei momenti, è un’esperienza che ha un risvolto anche psicologico. E quando riesci a dimostrare la tua innocenza hai già perso tutto».
Lei però è riuscito a difendersi, senza abbandonare la politica.
«Per sei anni ne sono rimasto fuori. Ci sono tornato per passione, per cercare di modificare le cose, credo profondamente nella democrazia ma all’epoca avevo ancora tre anni di mandato. Si interruppe un progetto di città. Capisco la ratio del legislatore che vuole preservare le istituzioni dalla corruzione ma nella visione della giustizia per come la intendo io bisogna anche garantire i diritti di chi svolge un incarico pubblico e si ritrova imputato, altrimenti si innesca un cortocircuito del sistema Paese. La verità è che le vicende giudiziarie hanno condizionato l’evoluzione del quadro politico nazionale. Bisogna ripristinare ruoli, ambiti e soprattutto tempi».
La riforma del processo penale del ministro della Giustizia Marta Cartabia va in questa direzione?
«C’è stata una abdicazione forte della politica dal ’92 in poi, con uno scivolamento di tutte le garanzie e i diritti di difesa. I tempi della Corte d’Appello a Palermo sono celeri ma in generale non è possibile tenere sotto processo le persone per tanti anni».
Emilio Pucci