Toh che scandalo, le nostri carceri somigliano troppo a quelle dei regimi alla Pol Pot

Toh che scandalo, le nostri carceri somigliano troppo a quelle dei regimi alla Pol Pot

Dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione ecco l’indignazione per S.M. Capua Vetere. Come non fossero già noti alcuni angoli oscuri della nostra democrazia

Tratto dahuffingtondel 4 luglio 2021
E dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, quando tutto il Paese, e cioè la politica e la società, e in mezzo i media, accolsero l’invito di Matteo Salvini a gettare le chiavi, chiavi di ferro con cui chiudere a doppia mandata le porte delle carceri durante la pandemia, e lasciare che in dodici si sfidasse il contagio nello spazio di tre metri per quattro, con i letti a castello impilati fino al quarto piano, cosicché l’ultimo detenuto, quello che dormiva più in alto, non potesse alzare la testa senza sbatterla contro il soffitto, e chiavi simboliche, con le quali confinare dietro quelle sbarre tutto il male del mondo, per non vederlo più; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, in cui pure moralisti patentati s’indignarono quando, per le rivolte e le proteste dei detenuti, e per gli appelli sgolati dei pochi capaci di vedere l’orrore, qualche cardiopatico, e qualche malato devastato dal cancro tornarono a casa ai domiciliari, seguiti da un coro di scandalo, innalzato dalle migliori penne del giustizialismo patrio, che addirittura costrinsero il direttore centrale del Dipartimento penitenziario a dimettersi; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, in cui la direttrice del carcere di Reggio Calabria fu posta agli arresti con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, per aver riconosciuto ai detenuti trattamenti umanitari giudicati inopportuni dal gip, e le cronache indugiarono con accattivante simbologia sulle prelibatezze e sui favori garantiti ai boss, che altro non erano che una cioccolata fondente e un colloquio con i familiari; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, in cui passava inosservata la condanna a sei mesi per atti osceni di un detenuto per un rapporto orale con la compagna nel parlatorio del carcere di Cremona, celato dietro alla borsa di lei ma ripreso dalle telecamere, perché nessuno sapeva che in Francia, Olanda, Svizzera, Finlandia, Norvegia, Austria, Germania, Svezia, Spagna, ma anche in Russia, Croazia e Albania, i detenuti sono autorizzati a incontrare per ore, e talvolta per intere giornate, la famiglia in miniappartamenti senza alcun controllo, mentre in Italia il diritto all’affettività in carcere, previsto dalla riforma dell’ordinamento penitenziario annunciata più volte dall’ex guardasigilli Andrea Orlando e mai portata a compimento, è stato definitivamente archiviato dal governo muscolare di Conte-uno, Salvini e Di Maio; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, in cui magistrati blasonati, in servizio effettivo ma anche in pensione, eroi dell’antimafia e giornalisti senza macchia e senza paura, anche perché da decenni abituati a girare con la scorta tra un talk televisivo e un altro, innalzarono una diga di parole a difesa dell’ergastolo ostativo, cioè una pena senza fine e senza possibilità di accedere a qualsiasi misura alternativa al carcere e a ogni beneficio penitenziario, a meno che il condannato non decida di pentirsi e offrire al pm nomi e accuse utili e sufficienti a pagare il diritto a quel briciolo di umanità che si dovrebbe anche al peggiore dei criminali; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, in cui sessantuno uomini a cui è stata sottratta dallo Stato la libertà si sono suicidati nel 2020 in carcere, per lo più impiccandosi, senza che nessun secondino sia riuscito a impedirlo e senza alcun clamore, stupore, attenzione, perché il detenuto, indagato nell’intimità, negli affetti, negli umori e perfino nei bisogni fisiologici, deve tuttavia restare invisibile alla comunità dei cittadini liberi, affinché si esorcizzi – come scrivono Luigi Manconi e Federica Graziani nel libro “Per il tuo bene ti mozzerò la testa” – la minaccia di un attentato alla propria sicurezza che il carcere, come incubatore del crimine, evoca, e la minaccia che da noi, dal nostro inconscio si proietta sul carcere, per rimuoverlo e scacciare con esso i nostri incubi; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, in cui i centosessanta agenti penitenziari autori della mattanza a Santa Maria Capua Vetere sono rimasti al loro posto, a contatto con gli stessi detenuti che avevano massacrato di botte e umiliato nel corpo e nello spirito, perché nessun provvedimento di sospensione o di trasferimento è stato adottato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nonostante si conoscessero i loro nomi e nonostante le denunce del garante dei detenuti avessero ampiamente svelato che qualcosa di orrendo era accaduto, e nessuna indagine interna è stata aperta, con la scusa che la magistratura penale stava indagando, come se l’inchiesta penale impedisse al guardasigilli Alfonso Bonafede di fare chiarezza; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, trascorsi dalla radicale Rita Bernardini, e da pochi altri, davanti al ministero della Giustizia in una maratona radiofonica a ricordare che il carcere è il buco nero della nostra democrazia, e dalla politica tutta, da Salvini e Meloni a Di Maio, passando per Zingaretti e Letta, a discutere su come inasprire le pene e su come aggiungere nuovi reati, come se non bastassero quelli già previsti dal codice penale e da una miriade di leggi mal scritte e spesso inapplicate; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, ecco arrivato il momento in cui l’amnesia e la rimozione si voltano in scandalo e indignazione, e si scopre che nelle carceri di una grande democrazia europea è avvenuta una mattanza che neanche Pol Pot avrebbe pensato, che il teorema delle mele marce nell’albero sano è una favoletta che non funziona più, che i pestaggi e le torture sono il modo di regolazione dei conflitti in molte carceri italiane, che un filo rosso lega i massacri del G7 a Cucchi, ad Aldrovandi, a Marrazzo, ai carabinieri deviati di Piacenza e a Santa Maria Capua Vetere, che la cultura delle forze dell’ordine in questo Paese è infiltrata, anche nelle posizioni di vertice, da retaggi securitari e illiberali, che transitano tra le generazioni, non diversamente da quanto accade in America, che alcuni angoli oscuri della nostra democrazia somigliano troppo a quelli dei regimi, che non basta denunciare e che indignarsi è il modo più comodo per rinunciare a cambiare, che è ora di rifondare i corpi della sicurezza, estirpando le pulsioni autoritarie con una formazione capillare, che si deve riattivare un penetrante controllo parlamentare, ma soprattutto che bisogna smetterla di usare gli allarmi e la paura per tornare a parlare di ordine pubblico e di giustizia con parole di verità, di scienza e di pietà.
Alessandro Barbano
da Huffingtonpost

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *