Presunto Innocente - Eugenio Albamonte

«Valutare noi toghe? No a un’élite di eccellenti, ma i capi vanno formati»

Il leader della corrente progressista scettivo sull’idea avanzata da Ermini di un vincolo tra performance e carriera dei magistrati: «le verifiche servono a scongiurare cadute di professionalità»

Tratto da
ilDubbiodel 24 marzo 2021

Prosegue anche dalle pagine di questo giornale il dibattito sulla valutazione professionale dei magistrati.
Dopo l’intervista di ieri al professor Giuseppe Di Federico, secondo il quale «il Csm non effettua da tempo le valutazioni di professionalità ai fini dell’avanzamento in carriera», essendo esse sempre positive in un range che varia tra 99,1 % e il 99,5%, oggi ci confrontiamo con il dottor Eugenio Albamonte, pubblico ministero a Roma, già presidente Anm, e attuale segretario generale di Area Democratica per la Giustizia, il gruppo delle toghe progressiste.

Dottor Albamonte, le faccio la stessa domanda che ho posto al professor Di Federico: cosa pensa della proposta del vicepresidente Ermini?
Concordo con il presidente Santalucia che ha sostenuto che non è una proposta accettabile. Soprattutto perché, così come è stata posta sui giornali, manca di approfondimento. Sembra ritagliata sull’emotività del momento, in relazione ad alcune vicende giudiziarie che hanno fatto scalpore a livello mediatico.
Non è opportuno utilizzare un caso singolo per portare la discussione sul piano generale. Andando nel merito della questione: una valutazione della performance giudiziaria dei provvedimenti come parametro di valutazione professionale del magistrato porta al paradosso che gli unici che avranno la valutazione positiva saranno quelli della Cassazione perché sono gli ultimi a giudicare. Credo che il vicepresidente Ermini non stesse pensando a una simile eventualità.

Quindi le sue parole potrebbero essere lette come una provocazione per lanciare il sasso nello stagno. Il quadro che ha delineato invece il professor Di Federico è corrispondente alla realtà?
Ho letto con grande attenzione l’intervista al professor Di Federico. La valutazione di professionalità dei magistrati non si basa su criteri di eccellenza, bensì sulla necessità di garantire uno standard professionale adeguato a tutti i cittadini in relazione a tutti i processi che vengono celebrati. Il cittadino non ha bisogno di pochi giudici eccellenti che trattino le cause più importanti; al contrario necessita di magistrati che arrivino a un livello di adeguatezza. E anche per questo che le valutazioni sono in larga parte positive. Quello che il nostro sistema prevede è di andare a cercare la caduta di professionalità.

Quindi una verifica al contrario.
Esattamente: la questione va capovolta. Però a parità di curriculum come si sceglie a chi assegnare un incarico direttivo? Qualcuno dice che proprio la uniformità enfatizza il peso delle correnti.
Convengo che questo è un punto critico: se la valutazione si basa sul livello di adeguatezza standard per tutti, è chiaro che quando si deve operare una selezione per gli incarichi direttivi ci si trova dinanzi a una situazione di equivalenza. A questo punto o ripensiamo al sistema di valutazione di professionalità, secondo il quale un magistrato cresce di passaggio in passaggio con il suo curriculum a differenza di un altro che ha meno meriti. E allora la valutazione si trasforma in un percorso di selezione della futura dirigenza. Si tratterebbe di una modalità completamente differente rispetto a quella per cui è nata la valutazione di professionalità.

Ma ora tra profili equivalenti si rischia di dover ricorrere alla monetina.
È vero allora che c’è un’altra questione: la selezione potrebbe essere fatta sulla capacità di un magistrato di organizzare l’ufficio in futuro.

Anche la ministra Cartabia pare orientata a una periodica valutazione sulla formazione dei candidati o di chi già svolge ruoli direttivi negli uffici.
Esatto. Se però una persona non ha mai organizzato un ufficio e non lo si mette alla prova diventa molto difficile capire in anticipo quali saranno le sue capacità di organizzare un ufficio. Quello che forse bisognerebbe fare è trovare un modo, come dice anche la ministra, per spingere molto sulla formazione di una classe dirigente.

La guardasigilli, nell’esporre le linee programmatiche in Parlamento, ha detto che occorre «ridurre il peso delle correnti nella scelta dei candidati e nella determinazione dei componenti» del Csm preservando tuttavia l’ «ineliminabile pluralità delle culture della magistratura». Concorda?
Condivido pienamente le considerazioni della ministra. La magistratura deve insistere allo strenuo delle forze affinché il legislatore, nel tempo concesso da qui al rinnovo del Csm, cambi l’attuale legge elettorale.
Quest’ultima venne concepita con le stesse intenzioni di cui parla la ministra, ma poi ha prodotto un effetto distorsivo opposto: per una serie di alchimie legate al sistema di voto, non solo ha rafforzato il potere delle correnti ma ha consentito che all’interno delle stesse si creassero delle specie di satrapie, di principi elettori che, al di là delle stessa democrazia interna alle correnti, sono stati in grado di orientare il voto.

Le soluzioni?
Bisogna da un lato ridurre la possibilità delle correnti di orientare il voto e dall’altro invece aumentare la capacità di scelta dei magistrati, ampliando il più possibile il numero dei candidati. Potrebbe essere forse più valido il sistema dei collegi territoriali, grazie ai quali l’elettore sarebbe in grado di conoscere meglio le caratteristiche del candidato.

Lei ritiene un problema il fatto che talvolta dei pm abbiano intrapreso iniziative che già in partenza era chiaro fossero infondate?
Il problema c’è ma non si lega alla questione dell’obbligatorietà dell’azione penale, perché il pm ha la facoltà di chiedere l’archiviazione. Il professor Franco Cordero scriveva che il vero pubblico ministero richiesto dal nuovo codice di procedura penale è quello che alla fine delle sue indagini riesce a fare una operazione culturale, che sicuramente è difficile, ma che è quella giusta: spogliarsi del ruolo di pm, assumere il metro di giudizio del giudice e valutare il suo lavoro dall’esterno come se fosse il giudice. È l’esercizio al quale tutti noi siamo chiamati e rispetto al quale dobbiamo essere all’altezza. Un pm si giustifica come parte nella stessa giurisdizione dei giudici proprio in quanto riesca a compiere questo cambio di prospettiva.

Se il pm non ci riesce cosa si può fare affinché un processo si istruisca solo quando necessario? Rendere più stringente la regola del rinvio a giudizio?
Innanzitutto c’è un problema di formazione: non tutti i magistrati vengono abituati a ragionare in questi termini. Poi se questa capacità venisse a mancare dovrebbe subentrare un momento di controllo giurisdizionale successivo. Una delle soluzioni, prevista anche dalla riforma Bonafede, è quella di potenziare l’udienza preliminare: essa nasce nel contesto del nuovo codice come un vero filtro e poi nel tempo questa funzione si è andata perdendo.

In questi giorni si è discusso molto di mediaticità dei pm, soprattutto in relazione al processo Rinascita  Scott. Qual è il suo pensiero in merito?
Nessuno mette in discussione l’impegno profuso dallamagistratura requirente sul territorio, dove è impegnata in indagini molto delicate. E nessuno deve mettere in discussione il diritto-dovere degli organi inquirenti di rappresentare all’opinione pubblica, in occasione di iniziative giudiziarie importanti e quando molte persone sono state private della libertà personale, il significato di quello che si sta facendo. Tuttavia è fondamentale che questa comunicazione venga  effettuata con la massima accortezza in relaione alle dinamiche che sono ancora da svilupparsi. E evidente che la Procura può rappresentare solo un esito provvisorio della propria iniziativa. Deve stare molto attenta a non ingenerare nell’opinione pubblica la convinzione che ci si trovi già in una fase di giudizio definitivo sulle persone e sui fatti.

 

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